La disobbedienza civile e la non-violenza hanno una storia lunga e gloriosa: pensiamo a chi si è opposto con coraggio al nazifascismo o a figure come quelle di Gandhi e di Martin Luther King.
Negli ultimi anni si sono aggiunte nuove pratiche di disobbedienza: quella climatica, l’animalismo radicale, i passeurs che fanno attraversare i confini ai migranti, l’abbattimento o l’imbrattamento di statue di personaggi controversi, e tante altre. L’opinione pubblica ha spesso faticato a comprendere le ragioni e la specificità di queste iniziative, riducendole a un generico bisogno di visibilità. Certo, gli stati liberali e democratici, seppur imperfetti, meritano il rispetto delle leggi. Ma è innegabile che ci sono leggi e pratiche ingiuste, e da questa constatazione è necessario partire per capire le ragioni di chi decide di andare contro gli ordinamenti per reclamare la necessità di un cambiamento.
Lungi dall’esprimersi in un bisogno di radicalismo fine a sé stesso, il senso morale della disobbedienza va inteso come un modo, a volte estremo, di fare politica in una democrazia.
Quando le normali forme di rivendicazione democratica non funzionano, la disobbedienza può essere moralmente giustificabili.